Nel tempo, ogni famiglia ha messo a punto qualche variazione alla ricetta base, soprattutto per quanto riguarda l'aggiunta delle erbe selvatiche che regalano al piatto i loro articolari aromi. Il coniglio insieme a una testa d’aglio intera, viene rosolato a tocchi nella sartana, la tradizionale padella di rame.
Dopo la rosolatura, viene trasferito nel “tiano”, la pentola di terracotta in cui prosegue la cottura.
Conigli di qua e conigli di là. Si fa presto a dire «coniglio all’ischitana», piatto totemico, ricetta identitaria. Alla prova – in trattoria o ristorante - le delusioni superano ampiamente le soddisfazioni.
Troppo abusata la sicumera di cuochi e cuoche che s’illudono di cucinarlo «secondo tradizione».
Mi spiego meglio: ognuno è libero di mettere in tavola la propria personalissima «ricetta tradizionale». Ma il nodo cruciale è, non solo riservato alla materia prima, troppo spesso sottovalutata nell’orgia veloce delle preparazioni per le frotte turistiche; ma, ovviamente, alle modalità di cottura.
Ma qual è il canone da (preferibile) manuale? Il coniglio, di pezzatura non troppo grande, deve essere tagliato in dieci pezzi, poi deve essere rosolato nella padella (sartana), con grandissima cura, girato e rigirato. Non deve bruciacchiare, slabbrare, né prosciugare i propri umori, ovviamente. Si sposta nel tegame di terracotta dove cuoce, per mezz’ora, con una testa d’aglio intera e con calore e umidità uniformi, insieme a un bicchiere vino bianco (per sfumare); quindi pochi pomodorini e un po’ di concentrato. Le interiora, gli ‘mbrugliatelli avvolti nel prezzemolo, e il fegato si aggiungono a fine rosolatura. Il sugo, che sarà cremoso, condirà i bucatini. Vi concedo soltanto una variazione, per la pasta: gli zitoni lisci, o candele, spezzati. Possiamo anche aggiungere una spolverata di Parmigiano Reggiano ben stagionato, non il Pecorino. Peperoncino? No.
Mi direte: «ma qual è la novità?». Semplice: è obbligatorio procurarsi l’erbetta che conferisce al piatto la fresca mineralità ruspante che lo rende unico: la piperna, ovvero il timo serpillo. C’è chi la sostituisce con il basilico o la confonde – davvero è un orrore! – con la maggiorana, creando distorsioni sulla peculiarità ancestrale del condimento principe. Il rosmarino è altrettanto bandito, in tutti i sensi.
La verace piperna cresce sulle «parracine», gli assolati e un po’ salati muri a secco, e scivola giù in una cascata di serpentelli dalla cresta delle pietre tufacee che sono state incastonate senza malta: sono opere d’arte rustica che, contenendo terrazze e terrapieni, garantiscono il drenaggio alle piante e l’inconfondibile carica profumata della nostra essenza aromatica.
Le condizioni microclimatiche, per ottenere la piperna perfetta, si trovano prevalentemente nel versante ovest di Ischia, le dorsali – non troppo brulle - della cima dell’Epomeo, tra Frassitelli e Montecorvo, Panza e Forio. Ma s’è fatta strada pure nelle tortuosità a sud-est di Piano Liguori, San Pancrazio, Grotte di Terra, Campagnano alta.
Sono questi, del resto, gli areali dove è ancora cacciato il raro coniglio selvatico, pronipote di quello sbarcato tremila anni fa con i Fenici: erano splendidi navigatori che portavano con sé, sulle imbarcazioni di lungo corso, coppie e coppie di questi lagomorfi (non sono roditori!) per poi liberarli nelle isole d’approdo e lungo le coste dove, tornando dopo mesi, li riacchiappavano ormai moltiplicati in gran numero, grazie alla loro prolificità.
Alimentato con frasche e fogliame, il coniglio è pure allevato nelle mitiche fosse conigliere: nei dintorni delle quali la piperna cresce anche spontanea e, spesso, è parte integrante della dieta primordiale del coniglio stesso. Così si assiste a un circuito virtuoso di insaporimento doppio delle carni, prima e durante la cottura. Quanti aspiranti gourmet coniglieschi conoscono questo segreto? E sanno, inoltre, che non bisogna esagerare con il pomodoro, come ho detto prima; o che c’è un’abissale differenza tra l’uso della cipolla bianca dolce e del più canonico «aglio vestito»?
Insomma, questo totem e baluardo mangereccio – e non balordo! – nonché straordinario piatto insulare merita una sorta di necessario rispetto. Almeno per omaggiare la sua funzione rituale (cibo della festa; punta di diamante del baratto; certificatore degli accordi di comparaggio e delle promesse di matrimonio). Dunque, attenzione: non tutti possono definire «all’ischitana» la personale interpretazione, facendo deperire una storia gloriosa, sociale, antropologicamente importante. S’è visto tempo fa a Masterchef, dove spuntavano addirittura terrifici, sacrileghi peperoni.
Il momento della verità sarà comunque quello dell’abbinamento con il vino doc dell’isola: Biancolella o Per’ ‘e palummo, meglio in versione rosato. Se non funziona, il piatto è sbagliato: è una prova inconfutabile.